SE PORTI L'AMANTE A CASA COMMETTI IL REATO DI MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA!
Se stai pensando di portare la tua amante a casa e costringere tua moglie a sopportarne la presenza, ti consiglio vivamente di ripensarci. E' una condotta che, secondo i principi del nostro ordinamento, configura il reato di maltrattamenti in famiglia.
Scopriamo insieme il perché leggendo questo articolo.

COSA È IL REATO DI MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA?
Il reato di maltrattamenti in famiglia è un reato molto serio, previsto dall'art. 572 c.p. che sancisce una pena da 3 a 7 anni per chiunque maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte.
Il concetto di maltrattamenti è stato via via arricchito nel corso del tempo dalla giurisprudenza di merito e da quella di legittimità, fino a farvi rientrare anche una serie di condotte che, concettualmente, nel lessico ordinario, non rientrano nel significato stretto di maltrattamenti.
Ed infatti il delitto di maltrattamenti in famiglia non è integrato soltanto dalle percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni imposte alla vittima, ma anche dagli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali.
COSTRINGERE LA MOGLIE A SOPPORTARE LA PRESENZA DI UN'AMANTE
Il caso in commento costituisce una vicenda alquanto singolare, ma comunque affrontata dalla Corte di Cassazione, la quale ha ritenuto che costringere la moglie a subire o sopportare la presenza dell'amante o, più in generale, di una concubina nella abitazione coniugale costituisce una condotta umiliante, un vero e proprio atto di disprezzo e di offesa alla dignità del coniuge.
Da ciò, la configurabilità, nel caso di specie, del reato di maltrattamenti in famiglia.
IL REATO IN ESAME NON SI COMMETTE SOLO NEI CONFRONTI DEL CONIUGE
Ed infatti, va sottolineato che il delitto di cui all'art. 572 c.p., è configurabile anche in danno di una persona non convivente o non più convivente con chi determina il clima di vessazione, quando quest'ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla affiliazione
A tale proposito si sono più volte pronunciate diverse sezioni della Corte di Cassazione.(Sez. 6, n. 3087 del 19/12/2017 Rv. 272134; Sez. 6, n. 33882 dell'08/07/2014 Rv. 262078; Sez. 2, n. 30934 del 23/04/2015, Rv. 264661).
La separazione legale e a maggior ragione la separazione di fatto lasciano,
infatti, integri i doveri di reciproco rispetto, di assistenza morale e
materiale nonché di collaborazione.
Pertanto, poiché la convivenza non rappresenta un presupposto della fattispecie
in questione, la separazione non esclude il reato di maltrattamenti, quando
l'attività persecutoria incida su quei vincoli che, rimasti intatti a seguito
del provvedimento giudiziario o della separazione di fatto, pongono, come nel
caso in esame, la parte offesa in posizione psicologica subordinata o comunque
dipendente (Sez. 6, n. 282 del 26/01/1998, Rv. 210838).
IL DOLO: NON CONTA LA VOLONTA' DI INFLIGGERE VESSAZIONI E SOFFERENZE MORALI
Quanto al dolo, deve osservarsi che la giurisprudenza è costante nel ritenere che per la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 572 c.p. non è necessario che l'agente abbia perseguito particolari finalità nè il proposito di infliggere alla vittima sofferenze fisiche o morali senza plausibile motivo.
E', invece, invece sufficiente il dolo generico cioè la coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo a tali sofferenze in modo continuo ed abituale (Sez. 6, n. 1067 del 3 luglio 1990, Rv. 186275, Soru).
Non è, quindi, richiesto un comportamento vessatorio continuo ed ininterrotto: l'elemento unificatore dei singoli episodi costituito da un dolo unitario, e pressoché programmatico, che abbraccia e fonde le diverse azioni.
Esso consiste nell'inclinazione della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatrice che, nella reiterazione dei maltrattamenti, si va via via realizzando e confermando, in modo che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in una attività illecita, posta in essere già altre volte (Sez. 6, n. 468 del 06/11/1991 dep. 20/01/1992 Rv. 188931, Faranda). Questo è, perciò costituito da una condotta abituale che si estrinseca con più atti, delittuosi o no, che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi ma collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento dall'unica intenzione criminosa di ledere l'integrità fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo, cioè, in sintesi, di infliggere abitualmente tali sofferenze.