Spaccio di lieve entità.
12.09.2017
La Corte di Cassazione ha nuovamente ribadito come non possa esservi spazio, nel processo penale, per alcun automatismo o preclusione che si basi solo sui quantitativi della sostanza stupefacente.
Occorre,
in primo luogo, considerare che la fattispecie di reato prevista all'art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (trasformata da
ipotesi circostanziale in delitto autonomo per effetto dell'art. 2 d.l.
23 dicembre 2013, n. 146, convertito con modificazioni con I. 21
febbraio 2014, n. 10), è ravvisabile nei casi di minima offensività
penale della condotta, deducibile sia dal dato qualitativo e
quantitativo dello stupefacente, sia dagli altri parametri richiamati
dalla disposizione e segnatamente dai mezzi, dalle modalità e dalle
circostanze dell'azione.
In
linea con il chiaro enunciato testuale del citato comma 5 dell'art. 73,
la "quantità" "delle sostanze" costituisce soltanto un dato sintomatico
della non lieve entità del fatto, comunque da valutare nel contesto
delle ulteriori circostanze e peculiarità del caso di specie, alla luce
del prudente apprezzamento del giudice.
In
tale senso è l'insegnamento delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione espresso nella sentenza n. 35737/2010 (del 24/06/2010, P.G.
in proc. Rico, Rv. 247911), là dove, nel ribadire il principio già
affermato a composizione allargata (v. Sez. U, n. 17 del 21/06/2000,
Primavera e altri, Rv. 216668) - secondo il quale l'ipotesi in parola
"può essere riconosciuta solo in ipotesi di minima offensività penale
della condotta, deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia
dagli altri parametri richiamati dalla disposizione (mezzi, modalità,
circostanze dell'azione), con la conseguenza che, ove uno degli indici
previsti dalla legge risulti negativamente assorbente, ogni altra
considerazione resta priva di incidenza sul giudizio" -, hanno nondimeno
osservato in motivazione come la questione circa
l'applicabilità o meno della norma in parola "non possa essere risolta
in astratto, stabilendo incompatibilità in via di principio, ma deve
trovare soluzione caso per caso, con valutazione che di volta in volta
tenga conto di tutte le specifiche e concrete circostanze"
(nella specie, si trattava di una cessione a minore, giudicata
compatibile con l'ipotesi della lieve entità). Conclusione d'altronde
coerente con i principi di offensività, di proporzionalità e di individualizzazione e finalità rieducativa della pena
costituzionalmente presidiati, là dove rimettono al giudice la
valutazione del caso concreto onde determinare un trattamento
sanzionatorio adeguato, id est calibrato, alle specifiche modalità e
circostanze della situazione sub iudice, rifuggendo da automatismi
sanzionatori.
Sotto
diverso aspetto, occorre ricordare il principio di diritto ormai
pacifico, alla stregua del quale l'ipotesi del fatto di lieve entità di
cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, non è
incompatibile con lo svolgimento di attività di spaccio di stupefacenti
non occasionale ma continuativa, come si desume dall'art. 74, comma 6,
stesso d.P.R., che, con il riferimento ad un'associazione costituita per
commettere fatti descritti dal comma 5 dell'art. 73, rende evidente che
è ammissibile configurare come lievi anche gli episodi che
costituiscono attuazione del programma criminoso associativo (Sez. F, n.
39844 del 13/08/2015, Bannour e altri, Rv. 264678; Sez. 6, n. 48697 del
26/10/2016, Tropeano e altri, Rv. 268171; Sez. F, n. 39844 del
13/08/2015, Bannour e altri, Rv. 264678).
Deve
dunque rilevarsi che, come l'occasionalità della condotta non può da
sola comportare il riconoscimento della fattispecie della lieve entità,
allo stesso modo il suo contrario non può di per sé costituire indice
sicuro di inapplicabilità dell'ipotesi, dovendosi verificare a cura del
decidente - che dovrà motivare specificamente sul punto - se la
condotta, pur connotata dalla predisposizione dei mezzi e dalla
programmazione delle modalità esecutive, cioè da un'organizzazione,
presenti contorni (ad esempio, per il ristretto ambito temporale di
operatività, per lo scarno numero di clienti, per la scarsa
professionalità) che consentano di ritenere minima l'offesa al bene
giuridico protetto dalla norma, che si connette al rischio di
diffusività delle sostanze stupefacenti (Sez. 6, n. 14882 del
25/01/2017, Fonzo e altri, Rv. 269457, in motivazione).
D'altronde,
la riconducibilità dello spaccio reiterato o organizzato all'ipotesi
lieve non postula necessariamente una risposta debole dell'ordinamento,
potendo il decidente determinare la sanzione nell'ambito di un'ampia
forbice edittale e dunque, se del caso, applicare una pena attestata sul
massimo comminato dalla norma.
Sulla base dei principi sopra esposti, la Suprema Corte, con sentenza n. 39374/17 ha affermato il principio di diritto alla stregua del quale, in
tema di sostanze stupefacenti, ai fini del riconoscimento della
fattispecie incriminatrice del fatto di lieve entità di cui all'art. 73,
comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, il giudice è tenuto a valutare,
secondo una visione unitaria e globale, tutti gli elementi
normativamente indicati, quindi, sia quelli concernenti l'azione (mezzi,
modalità e circostanze della stessa), sia quelli attenenti all'oggetto
materiale del reato (quantità e qualità delle sostanze stupefacenti
oggetto della condotta criminosa) come manifestatisi nel peculiare caso
di specie, senza nessun automatismo o preclusione, potendo escludere il
riconoscimento della fattispecie in ragione del dato quantitativo della
sostanza ovvero dei connotati dell'azione soltanto qualora essi possano
ritenersi dimostrativi di una significativa potenzialità offensiva e,
dunque, di un elevato pericolo di diffusività della sostanza,
inconciliabili con la fattispecie incriminatrice in parola.